L’ATTIVITÀ DI MEDICO VETERINARIO COMPORTAMENTALISTA PUÒ PRESENTARE RILIEVI DI CONFLITTO DI INTERESSI CON LA FUNZIONE DI PRESIDENTE DI UN’ASSOCIAZIONE SPORTIVA DILETTANTISTICA PRESSO CUI SVOLGE ATTIVITÀ DI RECUPERO E RIABILITAZIONE IN MERITO ALLE PATOLOGIE COMPORTAMENTALI DEGLI ANIMALI D’AFFEZIONE, CON CONSEGUENTE APERTURA DI UN AMBULATORIO VETERINARIO PRESSO LA SEDE DELL’ASSOCIAZIONE? È bene chiarire che, per il Veterinario in regime di Libera Professione, il conflitto di interessi si può verificare quando il comportamento e le scelte professionali riguardanti la salute del paziente, la salute pubblica e il benessere animale possono essere alterati da un interesse secondario, come la ricerca di un vantaggio personale di qualunque natura.
Normalmente, il vantaggio personale viene ricondotto alla possibilità di maggiori guadagni o di un accresciuto prestigio, personale e professionale.
Tuttavia, perché si versi in una condizione di conflitto di interessi, non è sufficiente che si prospettino vantaggi di tale natura: è necessario che, per conseguire tali vantaggi, il professionista sia portato a condizionare negativamente le proprie scelte professionali, a discapito della salute e del benessere degli animali, nonché della salute pubblica.
Nel caso in esame, nulla di tutto ciò pare ipotizzabile, nel senso che, non solo non si intravede un ingiusto profitto da parte del Medico Veterinario, ma neppure una qualsiasi compressione qualitativa delle prestazioni che verrebbero fornite.
SE IL MEDICO VETERINARIO, REGOLARMENTE ISCRITTO ALL’ALBO, NON ESERCITA LA PROFESSIONE PERCHÉ, AD ESEMPIO, HA INTRAPRESO UN PERCORSO DI FORMAZIONE NON RETRIBUITA, HA COMUNQUE L’OBBLIGO DI COPERTURA ASSICURATIVA PER LA RESPONSABILITÀ CIVILE PROFESSIONALE? La polizza di RC professionale è finalizzata - secondo le norme che ne hanno previsto l’obbligo - a coprire i danni derivanti al cliente dall’esercizio dell’attività professionale.
L’obbligo, rilevante sia sul piano contrattuale che sul piano disciplinare, va dunque correlato all’esistenza di un’attività professionale, tramite la quale, anche occasionalmente, il professionista svolga una prestazione nei confronti di un committente pubblico o privato.
Ne consegue in termini pratici che destinatari dell’obbligo non risultano indistintamente tutti i professionisti iscritti agli Albi, ma solamente coloro i quali esercitino la professione:
- in modo effettivo (che abbiano cioè almeno un cliente),
nonché
- in forma autonoma (che si possano cioè qualificare come “liberi professionisti” e non esercitino invece come lavoratori dipendenti pubblici o privati).
In pratica, e prescindendo dalla natura dal soggetto committente nonché dalla tipologia della prestazione svolta, quando un professionista iscritto all’Albo di riferimento della categoria esegua in proprio un’attività di carattere professionale, sarà tenuto a munirsi di idonea polizza assicurativa, dando altresì prova della effettiva esistenza e consistenza della polizza stessa.
L’obbligo di assicurazione si ravvisa anche per i professionisti che esercitano in forma saltuaria oppure occasionale, anche se nei confronti di parenti o amici e anche se non viene percepito alcun compenso a fronte della prestazione.
Nel caso di cui al quesito, infine, poiché la formazione non è assimilabile ad una prestazione professionale il medico veterinario non è tenuto ad avere una copertura assicurativa per la responsabilità civile. Resta inteso che qualora dovesse svolgere una qualsiasi prestazione professionale, anche occasionale e senza Partita IVA, dovrà aver preventivamente sottoscritto una polizza di assicurazione per la RC professionale.
L’ATTIVITÀ LIBERO-PROFESSIONALE DEL MEDICO VETERINARIO È INCOMPATIBILE CON ALTRA ATTIVITÀ D’IMPRESA COMMERCIALE? Le norme civili definiscono l’imprenditore come colui che svolge un’attività economica organizzata ai fini della produzione o dello scambio di beni o servizi. Si tratta, per il diritto, di attività produttive di ricchezza, che conferiscono ai soci la qualifica d’imprenditori.
Diversa è l’attività di medico veterinario, svolta in regime di libera professione che, da un punto di vista giuridico, non equivale ad un servizio e dunque non è definibile come attività d’impresa.
Altra caratteristica distintiva della libera professione riguarda il carattere personale della prestazione che, invece, non è richiesto nell’attività d’impresa.
Date queste peculiarità, è più corretto affermare che, con la qualità di socio (e/o di amministratore delegato) d’impresa commerciale, il medico veterinario assume automaticamente la qualifica d’imprenditore commerciale che esercita anche una libera professione e non, come sembrerebbe a prima vista, il contrario (vale a dire la qualifica di libero professionista che svolge anche attività d’impresa).
A differenza che ad altre professioni, al medico veterinario non è preclusa l’attività d’impresa, nel senso che non esistono divieti in tal senso da parte dell’ordinamento giuridico, ma ciò non equivale ad un diritto illimitato di esercitare contemporaneamente come professionista e come imprenditore, poiché si possono presentare circostanze e situazioni limitative di un tale diritto.
Ciò equivale a dire che il medico veterinario, in una sorta di autoregolamentazione, deve saper individuare le zone d’ombra tra le regole della professione ed il profitto imprenditoriale, allontanando da sé il rischio di ogni forma di opportunismo verso la clientela e di conflitto d’interessi.
Quest’ultimo, in particolare, non si manifesta solo in azioni concrete di speculazione economica a danno del cliente, bensì anche quando un simile rischio sia solo ipotizzabile. Il motivo è semplice: si tratta di condotte deontologicamente rilevanti e, quindi, valutate anche ai fini del danno d’immagine all’intera categoria, in termini di rispettabilità e fede pubblica.
In tutte le situazioni di questo tipo, anche quelle in cui il rischio di conflitto d’interessi sia solo potenziale, il medico veterinario ha l’obbligo di astenersi dal prestare l’attività libero professionale, poiché la deontologia ritiene secondario qualsiasi interesse ulteriore rispetto alla salute pubblica e dell’animale paziente, al benessere animale, alla congruità e veridicità di una ricerca scientifica e dei relativi risultati (pensiamo a farmaci, integratori, alimenti e trattamenti cosmetici), all’oggettività della prestazione diagnostico-terapeutica, alle finalità istituzionali, ai diritti del cliente e ai rapporti con enti pubblici e privati, siano essi aziende, industrie, associazioni o istituzioni (art. 26 Cod. Deont. MV).
Quindi, gli interessi secondari non sono di per sé illegittimi in quanto tali, ma lo diventano quando la loro rilevanza si presenti come idonea a prevalere sugli interessi primari qui sopra elencati.
Il tema del conflitto d’interessi è poi inscindibile dal dovere d’indipendenza intellettuale che grava sul professionista. Il veterinario, infatti, deve difendere la propria libertà, nelle scelte e nelle valutazioni, da pressioni o condizionamenti, così come da imposizioni di carattere commerciale, attenendosi alle conoscenze scientifiche, ispirandosi ai valori etici della professione e senza piegarsi ad interessi secondari di qualsiasi tipo. In quest’ottica, nell’esercizio dell’attività d’impresa, il veterinario dovrà rifiutare di sottostare a scelte societarie che possano compromettere quella onestà intellettuale, che la deontologia gli chiede di mantenere libera.
È dunque corretto affermare che non ogni cointeressenza costituisca un illecito deontologico, ma unicamente quelle che condizionino la libertà intellettuale e professionale del medico veterinario.
La ricetta emessa dal medico veterinario va considerata come certificazione, scrittura privata o altro? La ricetta medica, espressione della potestà di cura, rappresenta un atto certificativo facente fede dello stato di malattia del paziente, il cui trattamento necessita della terapia prescritta (Cassazione Penale, Sentenza IV sez. 08.051/1990: "la ricetta ha natura di certificato per la parte ricognitiva del diritto dell'assistito all'erogazione dei medicinali"). La ricetta, in questo senso, può avere natura di atto pubblico o di certificazione amministrativa; distinzione rilevante per la maggiore severità con cui vengono puniti gli illeciti nella redazione degli atti pubblici: nell'atto pubblico si attestano fatti compiuti dal medico con funzioni pubbliche o avvenuti in sua presenza, mentre nella certificazione amministrativa il medico con funzioni pubbliche attesta fatti da lui rilevati o conosciuti nell’ambito della sua attività. Sia l'atto pubblico che la certificazione amministrativa si fondano sul presupposto essenziale che il medico veterinario li rediga nell'esercizio delle funzioni di pubblico ufficiale (art. 357 c.p.) o incaricato di pubblico servizio (art. 358 c.p.). In tal caso, il certificato (la ricetta) sarà atto di fede privilegiata, facente fede, cioè, fino a querela di falso, poiché dotato di rilevanza giuridica esterna (Cassazione Penale Sentenza V Sez. n. 32446/2013). Diversa è l'ipotesi di ricetta rilasciata dal medico veterinario libero professionista, che è considerata una scrittura privata (art. 2702 c.c.), avente tuttavia rilievo sul piano penale (art. 481 c.p. “Chiunque, nell'esercizio di una professione sanitaria o forense, o di un altro servizio di pubblica necessità, attesta falsamente, in un certificato, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da € 51 a € 516. Tali pene si applicano congiuntamente se il fatto è commesso a scopo di lucro.”)
Per falso ideologico si deve intendere qualsiasi attestazione non veritiera e, perché il reato sussista, occorre il cosiddetto dolo generico, vale a dire la consapevolezza che quanto si sta attestando non sia veritiero, senza che vi sia necessariamente l'intenzione di agire scientemente a danno di qualcuno o qualcosa.
Se un veterinario invia un cliente ad un collega o ad una struttura per accertamenti o approfondimenti, quale deve essere la condotta professionale corretta da adottare nei confronti del cliente e tra colleghi? Il medico veterinario ha, innanzi tutto, l’obbligo di non accettare “incarichi che sappia di non poter svolgere con adeguata competenza e con assicurazione di mezzi e impegno” (art. 8 Cod. Deont. MV). Questo significa che il veterinario, che non disponga nella propria struttura (studio/ambulatorio) della strumentazione necessaria per formulare una diagnosi e stabilire le conseguenti scelte terapeutiche, non può accettare l’incarico da parte del cliente, a meno che non abbia preso accordi per effettuare egli stesso gli esami presso la struttura di un collega. Diversamente, deve informare il cliente di non essere in grado di esprimersi e, pertanto, non può accettare l’incarico professionale. Può suggerire una struttura o un collega a cui il cliente potrà scegliere di affidare l’incarico, informandolo altresì che deve ritenersi libero di ricorrere a strutture e veterinari diversi da quelli prospettati e che potrà, per la prosecuzione delle cure, farsi seguire da chi desidera (struttura/veterinario di invio, o altro professionista).
Nel caso in cui il veterinario inizialmente contattato (“curante”) non disponga della competenza specifica richiesta dal singolo caso clinico, una volta individuato il collega esperto ed inviato a questi l’animale paziente, è tenuto a rispettarne le valutazioni e si assume ogni responsabilità laddove decida di disattenderne il referto, in tutto o in parte.
Naturalmente, può indicare al cliente le strutture ed i colleghi esperti delle cui competenze egli si fidi, dandone spiegazione al cliente; è fondamentale, tuttavia, che questo non configuri, in alcun modo, un obbligo per il cliente. Inoltre, non può stabilire, nei confronti del cliente, di riservarsi di accettare o meno esami o visite specialistiche effettuate presso soggetti terzi: è tenuto a “prenderli per buoni”, a meno che non presentino discrasie o evidenze di incompletezza, o non siano aggiornati.
In ogni caso, non deve suggerire attività che non siano strettamente necessarie o che siano inutilmente gravose per il cliente (art. 25 Cod. Deont. MV).
Deve infine rendersi disponibile verso la strutture o il collega cui invia il cliente, al fine di poter fornire informazioni ulteriori rispetto a quelle documentate, specialmente se ha seguito nel tempo l’animale ed è in grado di riferirne la storia clinica. Similmente, è tenuto a collaborare con la struttura o il collega di invio, particolarmente se gli approfondimenti rivelano patologie diverse da quelle sospettate in partenza o se si ravvisano motivi di urgenza.
La struttura o il collega cui viene inviato il cliente sono direttamente responsabili nei confronti dello stesso. Pertanto, pur tenendo nel debito conto le indicazioni del veterinario “curante”, il veterinario della struttura di invio non è ad esse vincolato e deve operare in scienza, coscienza e professionalità (art. 8 Cod. Deont. MV), dandone informazione al cliente.
Il veterinario della struttura di invio è tenuto a confrontarsi con il collega che ha inviato l’animale paziente, in ordine ai risultati della consulenza, alla prosecuzione delle cure, ad eventuali interventi chirurgici, ecc. In caso di disaccordo con il veterinario “curante”, deve darne informazione al cliente, affinché questi sia in messo nelle condizioni di poter fare delle scelte, quanto più consapevolmente sia possibile, per la salute del proprio animale.
Non deve fare pressioni affinché il cliente si affidi alle sue cure, interrompendo il rapporto con il veterinario “curante” e, laddove sia il cliente a manifestare intenzione in tal senso, deve osservare la dovuta correttezza nei confronti del collega ed informarlo, sincerandosi altresì che il cliente abbia provveduto a saldare tutti gli onorari a lui spettanti.
Al cliente che, all’esito della consulenza, desideri proseguire le cure presso il veterinario “curante” o rivolgersi ad altri, deve essere rilasciato idoneo referto, che deve essere esaustivo e funzionale a mettere il collega nelle condizioni di potersene servire al meglio. Deve altresì rendersi reperibile affinché il veterinario “curante” possa contattarlo per eventuali ulteriori informazioni.